31 luglio 2015. Da un´altra intuizione del M° Di Lauro Antonio nel Circolo nasce il Quintetto e l'Ensamble a plettro, tutto ripese, denominato FILOPOLI. Come l´illuminista abate Francesco Longano, anche il Circolo Mascagni immagina un luogo chiamato Filopoli, un´utopica società perfetta e democratica in cui Montesquieu stesso, scriveva, avrebbe voluto soggiornare e scrivere. Filopoli era il luogo in cui veniva armonizzato il rapporto tra città e territorio esaltando il mito del popolo sannita, attaccato alla patria e amante della libertà. La costituzione stessa di Filopoli prevedeva l´uguaglianza perfetta dei beni, dei diritti e dei doveri, di fronte a una religione civile senza Chiesa e senza poteri, conservata da sacerdoti scelti fra i più illuminati e benevoli padri di famiglia.
"FILOPOLI"
L’UTOPIA DELLA REPUBBLICA DEL MATESE
Pubblicato da F. Tavone su “Primo Piano Molise” martedì 30 luglio 2013, anno XIV, n. 208, p. 8
L’illuminista di Ripalimosani Francesco Longano nel discorso preliminare di apertura della stesura del 1796 del suo “Viaggio dell’abate Longano per lo Contado di Molise” parla di una città immaginaria che egli pone sul Matese, basata su una organizzazione sociale comunitaria e su una struttura politica repubblicana. Si tratta di Filopoli, ovvero città degli amici, con la quale l’abate molisano propone una società ideale che, come sottolineato dallo studioso Masiello, trova i propri riferimenti nell’egualitarismo rousseauiano e nell’etica massonica della fratellanza. Longano nel descriverla finge di essere nel 1950 e premette che dopo molti viaggi per i paesi più colti d’Europa, essendo tornato nel Contado di Molise, sale sulla parte più alta del Monte Matese. Davanti a sé vede con estremo piacere “la più bella e più dilettosa pianura della terra, ampia forse 25 miglia quadrate, ed all’intorno come munita da montagne, massime al suo oriente, e quelle di foltissimi boschi di faggi, di quercie, di fargne e di abeti vagamente vestite. La campagna in ogni sua parte è copiosa di limpidissime e freddissime acque, le quali scendono da’ monti più eminenti”.
Al suo centro sorge Filopoli, abitata da 20.000 persone, dove Longano, colpito dalla salubrità dell’aria, dall’amenità del clima, dall’abbondanza e dalla varietà del cibo, dall’aspetto dolce e carico di saggezza degli abitanti e da altri piaceri che arricchiscono l’esistenza degli esseri umani, decide di trascorre la propria vita. I filopolitani sono i discendenti dei Sanniti che, a detta di Longano, salvatisi con la fuga nello scontro di Aquilonia, inseguiti dai Romani, dopo essersi fermati a Bojano risolvono di andare a vivere sul Matese, da dove scendono la prima volta per unirsi ad Annibale, poi in occasione della guerra sociale, infine durante la guerra civile tra Lucio Silla e Mario. La campagna ha una forma quadrata e ciascun lato ha una estensione di cinque miglia. Nel suo centro si trova la città, anch’essa di forma quadrata e larga un miglio. Ha soltanto quattro porte che corrispondono ai quattro punti cardinali del cielo. All’incontro delle quattro strade vi è una grande piazza nella quale è collocato un grande obelisco di granito che racconta la storia di Filopoli. Dallo zoccolo su cui poggia “partono quattro strade sotterranee, ciascuna alta 30 piedi e larga 20. La prima, lunga 3 miglia, esce a levante del Matese, nella Guardia Regia, nella fenditura d’un sasso di smisurata grandezza. La seconda, lunga 4 miglia, termina al di sotto di S. Gregorio, alle radici occidentali di detto monte. Finisce la terza , lunga cinque, in un valle tra la terra di Cusano e la città di Cerreto. Termina l’ultima nella terra di Carpinone, all’oriente della città d’Isernia”. Le abitazioni sono di varie altezza: di un piano quelle poste vicino alla piazza e di due o tre piani quelle distanti. Per ogni lato della piazza si irradiano strade uguali, ampie e parallele fornite di spaziosi porticati. Longano precisa che la città non è fornita di mura in quanto la difesa è assicurata dal valore guerriero dei suoi abitanti, in più è protetta da un fiume su due lati e da montagne inaccessibili negli altri due. La città è divisa in 25 parrocchie, ciascuna comprendente 800 persone, una chiesa e 5 curati. Gli abitanti, a dirla con Longano, “hanno tanto i maschi quanto le femmine una statura vantaggiosa, la tinta della faccia è vermiglia, l’aria grave, gli occhi vivaci, la robustezza atletica. Sono nel vitto frugali, nel vestire semplici, nel tratto obbliganti, nelle calamità intrepidi e nella fatica instancabili. Esercitano le donne il medesimo mestiere degli uomini. Pigliano questi la moglie d’anni 24 o 30, le femmine da 16 a 20. La sposa non porta altra dote allo sposo che le sue buone qualità morali, una lancia ed un paio di buoi attaccati all’aratro. Non ci sono celibi. E’ vietato ai vecchi di potersi sposare una donzella, né è permesso ai giovani di unirsi colle vecchie. Presso di loro è antico l’uso del divorzio, in caso di sterilizza di prole o di scontentezza coniugale. Non ci si conosce tra loro altro che un solo ceto di persone. La nobiltà del sangue è riputata delirio. E come niuno può maritarsi fuori della sua parrocchia, così chiunque si distingue in qualche atto d’umanità o nella fatica, sia maschio sia femmina, si può scerre quella che più gli piace di qualunque rione. In tempo di guerra questa prerogativa si restringe ai soli giovani, i quali vi si distinguono. Per conto delle arti, esse sono ristrette alla coltura delle campagne, alla pastorale, alla guerra e a quelle di pura necessità. Sino all’età di 10 anni, sia maschi sieno femmine, apparono tutti il leggere, lo scrivere, il conteggiare ed il catechismo, sì religioso come civile. Dall’età di 20 a 50 l’agraria. Dopo di tale tempo vengono tutti occupati alle arti di comodo , come nel cucire, nel tessere, nel fabbricare case, cappelli, etc.. In tutti il senso della fatica è così comune e vivo che non evvi tra loro memoria d’un uomo sfaticato. I soli sacerdoti curati ne sono esenti, ma sono i medesimi indispensabilmente tenuti d’istruire la gioventù ne´ giorni di domenica nel catechismo. Fanno essi da medici e da cerusici, e sono nell’obbligo di assistere agli infermi, dì e notte. E le loro mancanze sono irremissibilmente punite. Sono scelti i curati da´ padri di famiglia più saputi e più onorati. E stando in ciascuna parrocchia cinque sono tutti occupati che nell’insegnante, chi nell’assistere agli infermi, chi nel mendicare senza esserne esente l’istesso arcicurato”. Nella Repubblica del Matese immaginata da Longano, della quale Filopoli è capitale e unica città, “non ci sono medici i quali ti prolungano i mali, né magistrati che ti spogliano, né causidici i quali accendono la fantasia degli ignoranti. Ma ci fiorisce in essa la quiete pubblica, perché ci si onoro l’onestà e ci è questa, perché a ciascuno la fatica è piacevole. Di qui nasce che in questa civiltà le liti sono rare e le voci furto, omicidio, furberia , tradimento, crapula, dissolutezza e bugia ed altrettali, le quali perturbano le province e i regni, quivi non hanno significato. Oltre all’anzidetto, contenendo la costituzione inalterabile del governo una perfetta uguaglianza di beni, di diritti e di doveri, ne segue ch’el tutto si reputa di tutti, e il tutto di ciascuno. Il perché brilla in ogni loro sentimento ed azione la generosità, la cortesia, la benevolenza, la fratellanza”. Da sottolineare è il modo in cui è educata la gioventù. I bambini appena nati sono immersi nell’acqua fredda e non c’è l’abitudine fasciarli, cullarli, di intimorirli e di spaventarli. A mano a mano che crescono viene loro insegnato ad amarsi vicendevolmente, a stimare la gloria nazionale, a onorare nei loro simili i propri padri, i fratelli, gli amici, le spose, la fatica e la libertà , più dei beni e della vita. I Filopolitani grazie ai loro curati non temono la morte e prolungano la loro vita in quanto hanno fatto propria la metempsicosi di Pitagora, ossia credono nella rinascita dell’anima o dello spirito di un individuo in un altro corpo fisico, dopo un certo tempo dalla sua morte terrena. Da ciò consegue, per esempio, il loro ritenere “che Erennio Ponzio telesino il giovane, fatto prigioniero da Papirio Cursore in Cominio, dopo la disfatta data ai Sanniti in Aquilonia, fusse rinato tra Galli alla prima volta in persona di Brenno che saccheggiò Roma, poi in Pirro, re dell’Epiro, indi in Annibale cartaginese, poi in Vezio di Sepino nella guerra civile tra L. Silla e Mario figlio e che, quando che sia, tornerà a rivivere tra loro per rinnovarci l’antica virtù militare. Ed all’incontro, credono che l’anima di Silla, il quale distrusse il Sannio, dicono che vada informando ora l’una ora l’altra bestia da soma in tutto il Contado”. Essi credono e confidano in un solo Dio creatore, ordinatore e benefattore dell’universo, al quale si deve rispetto, ubbidienza e gratitudine. A Filopoli le leggi non sono scritte, ma scolpite nel cuore delle persone e non vanno oltre le ingiurie e i danni causati: i primi sono puniti con le bastonate, i secondi con la pena del quadruplo. La morte si perde soltanto in guerra e le punizioni sono sempre eseguite e si estendono anche contro coloro che potendolo non hanno soccorso i bisognosi. I morti sono bruciati e in loro memoria sono organizzate feste con giuochi, danze, corse, lotte e pranzi. Non si fa uso di monete e i contratti si riducono a semplici scambi. Per quanto riguarda le scienze, nonostante gli abitanti della città di Longano siano portati alla speculazione “pure veruna se ne insegna. L’arte medica è ristretta ne´ solo curati, e le controversie, senza studio legale, si decidono sul campo. La sola poesia e la musica, tanto vocale che istromentale, sono esercitate nelle solennità conviviali, nuziali e funebri. Ma la musica tutta consiste nel "plectrum", il battimento delle loro spade ne´ scudi. La poesia è riposta nel celebrare l’eroiche azioni militari dal primo all’ultimo Erennio Ponzio telesino, nelle cui gloriose ceneri rimase anche sepolta quella degli antichi Sanniti”.
Longano si avvia alla conclusione della presentazione della città Filopoli con le affermazioni di seguito riportate: “Quivi l’uomo si gode de´ suoi diritti, che la natura gli ha dato. Sente la sua ragione, gli istinti e le propensioni e fa uso lodevole delle sue forze. Il culto divino è così netto e semplice che la illusione non ti seduce, la lingua non è mendace. Il cuore parla a Dio e le disubbidienze della sua volontà non si purgano col lusso delle chiese, né colle preghiere d’asceti crapuloni, ma colla pratica delle virtù monastiche, religiose e sociali. Quivi non si ubbidisce al capriccio ma alla legge; non si onora il poltrone ma l’uomo faticoso ed onesto; non ti spoglia de´ beni il ministro ignorante o venale ma l’istesso tuo misfatto doppiamente verificato; non ti tribola il prepotente ma ti consola la fratellanza; non ti avvilisce e disnatura la servitù ma ti solleva la benevolenza; non ti distingue il morto nonno ma ti prospera il proprio merito; non t’insulta il lusso di un infame ma ti fa morire a stento la inopia del vitto o l’oppressione de tuoi simili ma, nel più tardo di tua decrepitezza e nel magico senso dell’universale contento, con pietosa mano, la necessità del fato, nell’atto istesso che ti dissolve, ti ricompone”.